Abbazia di S. Andrea all’Isola – Brindisi
Il grande convento di S. Andrea all’Isola nel porto di Brindisi è stato completamente distrutto nel 1481 per costruire il Forte a Mare.
Poche e scarne le notizie documentarie.
Nel 1059 all’arcivescovo di Oria e Brindisi Eustasio, si presentano due baresi, Mele e Teudelmanno, i quali, chiedono l’Isola di S. Andrea ove esistevano ancora in quel tempo i resti di un antico convento basiliano, per fondarvi una congregazione di monaci e costruirvi una torre per la difesa del convento stesso devastato dalle incursioni saracene del IX-X secolo.
Il vescovo acconsente, nomina abate Mele e stabilisce che la nuova comunità debba vivere sotto la regola di S. Benedetto, riservando per sé e i propri successori l’autorità sul monastero (per saperne di più sull’isola di S. Andrea http://wp.me/p8GemW-md).
Tre anni dopo, secondo un documento citato dal Della Monaca, lo stesso Eustasio, nomina abate di S. Andrea, Lucio, sotto il quale, «quella chiesa ricevette la prima volta il rito e la vera forma del monasterio di S. Benedetto». E’ probabile che, l’intenzione del vescovo Eustasio, filolatino, fosse di iniziare la latinizzazione della diocesi con l’erezione di una nuova chiesa che sorgesse sui resti di quell’antico convento basiliano in cui probabilmente era d’uso il rito greco.
Foto da: Mostra documentaria AdS – Il Castello, la Marina, la Città
La presenza della nuova chiesa era importantissima ai fini della penetrazione del rito latino in questa città vescovile priva di vescovo e in cui da cattedrale fungeva temporaneamente la piccola chiesa di S. Leucio, ubicata addirittura al di fuori delle mura cittadine.
“La chiesa, ebbe a quanto si può dedurre dai frammenti scultorei superstiti, impianto basilicale, con colonnati dai grandi capitelli scolpiti, di una dimensione e qualità che normalmente si addicono alle cattedrali. E fu probabilmente un modello, almeno per quanto riguardava la decorazione scultorea, a cui ci si dovette riferire nel secolo successivo per le grandi fabbriche religiose brindisine: la chiesa di S. Benedetto, forse anche la cattedrale, purtroppo scomparsa anch’essa nel XVIII secolo.
Di tanta grandezza, rimangono unici testimoni alcuni resti scultorei conservati nel Museo Provinciale (oggi MUSEO ARCHEOLOGICO PROVINCIALE “F. RIBEZZO” ndr.) (PBD)
I grandi Capitelli di S. Andrea dell’Isola
1) Semicapitello – marmo, cm 80 x 93 x 65 – diam. di base, cm 45
E’ stato tagliato alla base probabilmente di una ventina di centimetri. La parte inferiore del capitello, semicilindrica, è decorata da due file di pigne su alti steli diritti, profondamente incassate, inframmezzate da altre pigne minori; al di sopra, rozzi caulicoli (*) piatti formano una voluta al centro della faccia e altre due agli spigoli. Piccoli uccelli schematizzati seguono la linea dei caulicoli. Al centro, fra due uccelli, una piccola pianta con foglie simmetricamente disposte, a rilievo bassissimo.
2) Semicapitello – marmo, cm 101 x 89 x 74 – diam. di base, cm 55
La parte inferiore, semicilindrica, è ricoperta da un fitto intreccio di rami, con foglie piatte e pigne, che partono da un grosso fusto centrale a forma di torciglione. Gli attacchi sono segnati da grosse borchie rotonde. Nella zona superiore, quattro arieti, due addossati al centro della faccia e due che escono a metà dalle ali laterali, si incontrano agli spigoli, con una sola testa in comune per due corpi. Il pelame degli arieti è indicato da piccole ciocche triangolari striate e pendenti, a forma di fiamme. Tra gli arieti, allo spigolo, una piccola pianta affine a quella che nel semicapitello separa gli uccelli. I due capitelli provengono indiscutibilmente dall’Isola del porto, dove li vide ancora l’Ascoli, «posati presso i ruderi del vecchio convento». Il Bertaux, che li pubblicò per primo, li datò IX secolo sulla base del confronto con una transenna in S. Giovanni Maggiore a Napoli, ritenuta anch’essa, credo a torto, di quella data. Del X secolo, appartenenti al primitivo convento basiliano dell’Isola, li ritengono anche Primaldo Coco e Benita Sciarra. Il Wackernagel, pur notando persistenze di gusto alto-medioevale, li accosta agli altri due capitelli dello stesso museo, datandoli di conseguenza tra l’XI e il primo XII secolo.
3) Capitello – marmo, cm 95 x 95 x 95 – diam. di base, cm 72
Su una fila di foglie di acanto finemente traforate, molto aderenti al fusto, passano quattro grandi animali, ognuno dei quali occupa una faccia del capitello: un bue, un leone con una vittima tra gli artigli, due arieti. Il leone e il bue si voltano le terga, che si accavallano allo spigolo e inseguono i due arieti che si incontrano con una sola testa in comune sullo spigolo opposto. La bozza al centro delle facce è foggiata in forma di protome (**) mostruosa che azzanna i quattro animali in mezzo alla schiena (quella sul dorso del leone è scomparsa). Riempie lo spazio sotto la testa dei due arieti, una pianta con grosse pigne pendule, affine, anche se più sviluppata, a quella sui due semi-capitelli. Lo stesso schema è ripetuto, identico, se pur con diversa fattura, su un capitello di San Benedetto di Brindisi (vedasi http://wp.me/p8GemW-13q). Il capitello proviene sicuramente da S. Andrea, dove lo scoprì il Wackernagel, trasformato in acquasantiera in una cappella allora usata come magazzino.
4) Semicapitello – marmo, cm 98x92x61
Il capitello, di tipo corinzio, con lunghi e sottili caulicoli a nastro formanti piccole volute angolari e grandi foglie su tre registri, molto aderenti al fusto e segnate da fitte nervature, è ricavato da un antico cippo romano, (..).
La provenienza dall’Isola è accertata dal Mommsen sulla base di una notizia manoscritta dello storico locale Casimirus (1567). Benché mutila e molto abrasa, la scultura si pone chiaramente come un modello per una serie di capitelli nella chiesa di S. Benedetto ed altri, nel Museo Provinciale, provenienti forse dalla cattedrale del XII secolo.
5) Capitello – marmo, cm 95 x 95 x 95 – diam. di base cm 76
Tutto attorno al fusto, sotto una fila di archetti, tre per lato, che fungono da abaco, si svolge una danza in cui sono impegnate dodici figure, due maschili e una femminile alternate per ogni faccia, che si tengono per mano, ora abbassando ora alzando le braccia all’altezza delle spalle.
Gli uomini, parte rasati, parte dotati di vistosi baffi, vestono corte tuniche strette talune alla vita da una cintura annodata. Le donne hanno lunghe vesti pieghettate ed elaborate capigliature. Il tema della danza è ripetuto più tardi, con altro stile, in un semicapitello del pròtiro di S. Giovanni al Sepolcro (vedasi http://wp.me/p8GemW-4n) e in uno della cattedrale di Otranto.
Anche per questo capitello la provenienza dall’Isola è indiscutibile. Il Wackernagel lo vide usato come pozzo nel cortile del R. Ufficio Semaforico. Ciò spiega la presenza del foro circolare al sommo e dei fori di incasso per le strutture metalliche che sostengono la carrucola, giustamente rilevate dallo Jurlaro, che tuttavia respinge l’identificazione con uno dei capitelli di S. Andrea e ritiene l’opera concepita originariamente come vera da pozzo e proveniente da S. Benedetto. L’ipotesi è contraddetta, mi pare, dalla provenienza accertata e dalla coincidenza di misure con il capitello n. 3.
particolari delle figure umane
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Scrive Pina Belli D’Elia
“I quattro esemplari sono fra i più singolari pezzi di scultura rinvenuti in Puglia ed anche tra i più notevoli come dimensioni e qualità.
Le dimensioni indicano l’appartenenza ad un edificio basilicale, pari alle cattedrali di Taranto e di Otranto, con grandi colonne e pilastri, cui dovevano adattarsi i semicapitelli.
Difficile precisarne la data, per la scarsità di termini di confronto invocabili e per i caratteri spesso contraddittori dei pezzi. Se infatti i due semicapitelli figurati conservano tante caratteristiche di gusto e di fattura ancora altomedioevali, che possono averne consigliato una datazione anticipata, il grande capitello con animali, indiscutibilmente connesso con i due precedenti, si pone come un pezzo scultoreo di tale maturità, così chiaramente definito nella composizione e nella modellazione delle immagini, da suggerire una datazione più avanzata, sulla fine del secolo.
Si è pensato all’opera di artefici bizantini, ricordando i grandi capitelli con protomi animali di Costantinopoli. Ma non è bizantina la struttura compositiva, la tipologia degli animali passanti, che se mai si ritrova su un capitello della SS. Trinità di Venosa, usato come acquasantiera, di tutt’altra fattura e di chiara origine occidentale. Per contro, unico termine di confronto invocabile per le figure degli arieti, per il trattamento del pelame a ciocche striate, sono gli animali stilofori del portico della cattedrale di Terracina, databili sulla metà del XII. D’altro canto la fattura accuratissima, la vivacità naturalistica, la finezza di lavorazione dei fogliami di acanto, tutto ci riporta ad uno scalpello, se non bizantino, educato da maestri orientali.
Ancora più sconcertante il capitello con la danza, che pur non trovando precisi termini di confronto in loco né altrove, va comunque accostato a prodotti occidentali e più decisamente nordici. Si veda come esempio, per il tipo fisionomico delle figure maschili e il genere di modellazione, rude ed essenziale, la serie di mostri sulle basi di colonne nella chiesa benedettina di Alpirsbach, Schwarzald, databili tra il 1095 e il 1100, dove compare una testa d’uomo baffuto quasi identica a quelle del capitello. (..)
Non è improbabile che la costruzione della chiesa di S. Andrea, iniziatasi probabilmente per tempo, poco dopo il 1062, con maestranze locali padrone di un repertorio tradizionale e ancora altomedioevale, si sia trascinata per qualche decennio, vuoi per la mole dell’impresa, vuoi per le traversie che, come si è visto, colpirono a più riprese la città e non potevano mancare di riverberarsi sul cantiere dell’Isola.Intanto i padroni cambiavano, il gusto si evolveva, alcuni maestri morivano ed altri nuovi ne subentravano. Soprattutto, affluivano nuovi modelli, che le maestranze interpretavano con la propria abilità o la propria inesperienza, ricavandone spunti nuovi, stimoli alla ricerca e alla fantasia. Accadeva così che scultori di educazione bizantina si trovassero ad interpretare un tema creato chissà dove, nel nord. E lo interpretassero con la propria sensibilità, la propria consumata abilità nel trattare il marmo, senza le rudezze che caratterizzavano gli stessi modelli nella loro versione occidentale. Oppure, in altri casi, contaminassero le nuove fonti con le forme ricevute dalla propria tradizione, ottenendone ibridi prodotti come il capitello con gli arieti. Prodotti per i quali sarà, penso, sempre vana la ricerca del confronto puntuale, che interessi contemporaneamente composizione, disegno e stile.
Ciò avviene, d’altronde, anche per i capitelli di S. Benedetto di Brindisi, che da quelli dell’Isola discendono così chiaramente da costituire un terminus ante quem per la loro datazione. Ma che pure nulla hanno in comune coi loro modelli dal punto di vista della fattura, dello stile, prodotti come sono di maestranze ben diverse, con caratteristiche proprie, riconoscibili se mai in altri prodotti molto lontani nello spazio, come certi frammenti erratici della cattedrale di Andria.” (PBD e TG)Abstract del libro: Alle sorgenti del Romanico – Puglia XI secolo, AA.VV. a cura di Pina Belli D’Elia. Dedalo Lit. (Bari) 1975
Note:
(*) Elemento architettonico in forma di stelo vegetale esile e pieghevole, il quale, sorgendo dal fascio di foglie d’acanto che formano il nucleo principale del capitello corinzio, si dispone a ciascun angolo del capitello, svolgendosi sotto l’abaco in spirali. Caulicoli o steli minori si staccano poi da quelli principali d’angolo, e svolgono simmetricamente le loro spire occupando il campo libero tra le foglie d’acanto e l’abaco.
Per estensione si indica con questo nome qualunque motivo vegetale stilizzato dello stesso genere, usato decorativamente su rilievi o pitture, e che presenti una lontana parentela con i motivi del capitello corinzio. (Treccani.it)
(**) nell’arte antica, elemento decorativo a forma di testa umana o animale (Garzantilinguistica.it)